Pensieri ed Emozioni

E se il meglio fosse oltre la paura?

Sono rimasta seduta minuti a fissare un foglio. Minuti che sono diventate ore. Un semplice foglio pre compilato per la cessazione del mio rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Un rapporto di lavoro durato quasi sette anni. Sette lunghi anni, dove questo indeterminato non mi ha mai dato la serenità che credevo invece di aver trovato.

Per me è stata una galera.

In tutti questi anni non ho mai potuto esternare quello che pensavo veramente, perché il senso di colpa ha sempre avuto la meglio su di me. Sono riusciti sempre a farmi sentire un’ingrata, come se quel lavoro mi fosse piovuto dal cielo o mi fosse stato regalato, come se non lo meritassi. Mi sono sentita dire che dovevo dire “grazie” perché avevo la fortuna di avere uno stipendio a fine mese. Perché c’è chi non può mangiare. Perché c’è chi un lavoro non ce l’ha o l’ha perso.

Ho trascorso gli ultimi mesi a chiedermi se fosse la scelta giusta, se in futuro me ne sarei pentita, se fossi davvero così incosciente come mi hanno detto e fatto sentire. Forse si o forse no. La maggior parte delle scelte della mia vita sono state prese sull’onda della paura e non del coraggio. Paura di andare in peggio, perché è questo che pensiamo continuamente: “E se poi va peggio?”

Cosi restiamo intrappolati in relazioni dove non siamo felici o non ci sentiamo amati, perché se cambio partner magari vado in peggio. E continuiamo ad esercitare un lavoro che non ci piace più, che arriviamo perfino ad odiare perché meglio di niente, c’è chi sta peggio. Non chiudiamo un’amicizia disfunzionale perché abbiamo paura di rimanere da soli. Ed è un continuo turbine di pensieri negativi, di cose che possono andare in peggio.

Ma oggi vi pongo una domanda, la stessa che mi sono posta per mesi e anni:

“E se invece andasse meglio?

“E se la mia situazione potesse migliorare?”

Perché – ogni volta – di fronte ad un cambiamento, ci viene naturale pensare che andrà male? O che la situazione peggiorerà? Magari invece migliora. Non possiamo saperlo.

Perché arriviamo a non correre nemmeno il rischio di vedere cosa succede, per paura che forse andrà male? Come possono migliorare le cose se continuo a rimanere in un posto dove non sto più bene?

Per anni ho cercato una soluzione esterna ad ogni mio problema, così anche per il lavoro ho passato anni ad aspettare che mi piovesse un’alternativa dal cielo, un’occasione migliore senza cercarla. Fino a quando ho realizzato che, per ogni vero cambiamento, la soluzione non è mai all’esterno ma dentro di noi.

In questi giorni, ho pensato e ripensato alla mia decisione perché – come tutti gli esseri umani – ho avuto paura. Paura di sbagliare. Paura di fare una cazzata. Paura di pentirmi.

Poi un giorno è successo qualcosa.

Non ho mai creduto nel destino o nei “segnali” che la vita ti manda. Ho sempre pensato che siamo noi gli artefici del nostro destino, e per anni mi sono impegnata nel voler raggiungere – ad ogni costo – tutti gli obiettivi che mi prefissavo. Nonostante la vita ha mischiato le carte della mia sorte più volte, non mi sono arresa. Ho continuato imperterrita ad insistere. Ho insistito con il lavoro, nelle relazioni, nelle amicizie e nella vita in generale, perché credevo che quell’impegno prima o poi sarebbe stato ripagato. Fino a quando, mi sono resa conto che tutto quell’insistere mi sfiancava e un giorno mi sono arresa. Ho imparato a lasciare andare. Ho capito che puoi fare tutti i piani che vuoi, ma che la vita segue un suo percorso e che puoi solo accettarlo, perché contrastarlo non ha poi così senso. C’è sempre un motivo se ci succede qualcosa, anche quando non riusciamo a vederlo. Nell’ultimo anno ho seguito un po’ i segnali che mi sono arrivati dalla vita, senza forzare mai nulla ed ho cambiato idea su tante cose.

L’altro giorno stavo riordinando casa, assorta tra i miei pensieri e dai mille dubbi se fosse la scelta giusta licenziarsi da un posto di lavoro che in passato ho fatto fatica a trovare. Non leggo mai le frasi del “Calendario Geniale”, spesso non lo sfoglio per settimane. Quel giorno ho notato che era fermo al 18 novembre, cosi ho strappato i fogli per portarlo alla data giusta. Sono rimasta sorpresa dalla frase del giorno, sembrava scelta per me. Ho pensato subito fosse un caso. E se invece non lo fosse? Forse la vita mi stava mandando uno dei suoi segnali. Segnali che di solito ho sempre ignorato.

“Le scelte giuste sono quelle che si prendono sulla base del coraggio e non della paura”

Ho sorriso di fronte a quella verità. Una verità che mi è arrivata dritta in faccia, senza fronzoli, che mi ha colpita dentro. Una vita intera ho guidato la mia nave come un comandante eretto davanti al suo timone, prendendo sempre la strada più sicura, quella più giusta per paura. Paura del temporale, paura di affondare, paura dell’imprevisto, paura di deludere i miei passeggeri. Con la costante responsabilità di portare tutti in salvo. Questo mi ha portato lentamente a soffocare, da dentro.

Quel contratto a tempo indeterminato tanto ricercato mi stava facendo annegare. Mi rubava la cosa più importante che ho: la mia libertà e il mio tempo.

IL POSTO FISSO. Io l’ho lentamente detestato, fino ad arrivare ad odiarlo. La mia generazione è cresciuta con l’ideale di quel posto a tempo indeterminato, come ci ha mostrato Checco Zalone nel suo film: “Quo vado?”, un insieme di diritti e di sicurezze a cui non si può rinunciare. Un posto di lavoro da tenersi stretti. Ad ogni costo.

Ma è davvero cosi? O è solo un mito?

Eppure io, in tutti questi anni, non mi sono mai sentita cosi. Ho vissuto il mio posto da dipendente pubblico più come il ragionier Ugo Fantozzi. Senza nessun diritto o riconoscimento. Mi sono sentita solo un numero, non ho mai fatto la differenza per nessuna azienda, nonostante mi impegnassi o continuassi a studiare. Non c’è stato nessun scatto di fascia economica in questi anni o una promozione. Non sono stata riconosciuta più “competente” nonostante altri titoli di studi conseguiti. Ho dovuto sottostare alle ingiustizie di chi lavora più in alto di me, nonostante non abbia fatto un giorno di corsia o un turno di notte. Ho sopperito alla mancanza di personale come se fosse una mia responsabilità. Ho rinunciato al mio tempo libero. Tempo che sono consapevole non tornerà indietro. Ho sacrificato la mia salute per aiutare gli altri, con turni estenuanti e carichi di lavoro sproporzionati però, a un certo punto, mi sono chiesta: «perchè la mia salute vale di meno?»

Per anni ho sentito ripetere a persone più grandi di me: «Voi giovani non volete fare sacrifici».

Mi sono sempre chiesta – crescendo – se davvero fosse così. Perché nel mio percorso di vita invece, ho incontrato ragazzi volenterosi, pieni di capacità e di voglia di costruire. Ragazzi pieni di sogni e con la voglia di migliorare questa società. Giovani che hanno sacrificato il loro tempo, adattandosi a ritmi e a condizioni di lavoro allucinanti, con stipendi da fame. Nonostante anni di studi e mille competenze raggiunte. Ragazzi che hanno resistito e hanno continuato ad impegnarsi, che hanno cambiato città, casa e posto di lavoro, hanno perso i loro amici eppure si sono sempre reinventati.

Quindi oggi rispondo anche a chi sostiene ancora questa teoria. I giovani di ora fanno molti più sacrifici rispetto alle persone di una volta. Perché hanno imparato a sopravvivere. Sopravvivono in una società che in cambio non da nulla. Sopravvivono sapendo che non avranno un lavoro e che per questo motivo saranno costretti a spostarsi. Cambiano città, regione o Stato, senza lamentarsi. Sopravvivono da soli nelle fredde camere in affitto. Si aggrappano ai loro sogni, sperando che un giorno si avvereranno. Si impegnano per avere un futuro migliore.

Qualche anno fa – ad un pranzo di Natale – ero demoralizzata per il mio lavoro, per le scelte di vita che ho fatto e mi sentivo in ritardo per cambiare strada. Incastrata. In trappola, su una strada già definita e mia zia Antonella ha preso la mia mano tra le sue e mi ha detto: «Sei giovane, hai tutto il tempo per cambiare strada e fare quello che ti piace. Non sei in ritardo». Ho ripensato spesso alle sue parole negli ultimi anni.

Così il 28 novembre ho preso coraggio e ho dato ufficialmente le mie dimissioni. Quel giorno ho scelto di andare a piedi fino all’ospedale e stranamente c’era il sole a Vicenza e il cielo era sereno, ma soprattutto per la prima volta sentivo che stavo andando nella direzione giusta.

Non so se diventerò mamma un giorno, però ora sono zia anch’io e spero, in futuro, di poter raccontare a mio nipote questa storia quando si sentirà perso o quando avrà paura. Gli racconterò di come a 34 anni ho trovato il coraggio di mettere in discussione le scelte di una vita intera e di cambiare strada.

Forse sarà un buco nell’acqua o forse questa decisione mi cambierà la vita. Ancora non lo so, ma come diceva Lucio Battisti: “lo scopriremo solo vivendo”. Di sicuro una cosa è certa: saprò di aver avuto il coraggio di averci provato e non avrò nessun rimpianto.

Alla Paura che ci paralizza,

Al Coraggio che non sappiamo di avere,

Alle scelte che ci cambiano la vita.

Un commento

  • Patrizia

    Che belle riflessioni! Complimenti veramente per il tuo coraggio! Ho sempre avuto paura di fare questo passo anche io in quanto figlia di una cultura in cui il ” posto fisso ” è l’unica garanzia nel mare magnum delle incertezze di questa vita! Oggi però mi hai dato una ispirazione e sono andata anche io a leggere il pensiero del giorno, dice esattamente così : ” Non perseguire gli intrighi esteriori. Non indugiare nel vuoto interiore. Sii sereno nell’unicita’ delle cose. E il dualismo svanirà da sé! ”
    Grazie 🤗

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