Racconti

Inaspettato: dove una cena ti porta

Sette anni fa mi sono trasferita in Veneto, precisamente a Vicenza. Quando sono arrivata qui avevo 28 anni e mi sono lanciata nell’acquisto della casa, completamente da sola. Ricordo perfettamente il pomeriggio che sono andata a vederla per la prima volta. Era fine agosto, c’era il crepuscolo all’orizzonte e quando Stefan – il broker dell’agenzia immobiliare – ha aperto la porta di casa, sono stata investita da un’arancione che mi è entrato dentro, illuminando tutto il resto. Era un periodo particolare della mia vita perché non sapevo se volevo rimanere in Veneto, se acquistare casa o se andare in affitto. Semplicemente non sapevo in che direzione stava andando la mia vita. Eppure quando ho visto la casa -che poi sarebbe diventata “mia” – per la prima volta, mi sono innamorata. Non riuscivo a pensare ad altro. Quella finestra ad angolo che illuminava il soggiorno così tanto da fare luce non solo nella stanza ma anche dentro di me, mi ha colpito. Ricordo che ho chiuso gli occhi e ho immaginato la mia vita in quel bilocale così piccolo che è riuscito subito a farmi sentire a casa. Ho visitato altre case nei giorni e nei mesi successivi, ma nessuna mi piaceva come quella. Avevo paura di prendere una fregatura in qualche modo, di sbagliare e di prendermi la mia prima vera responsabilità: quella di scegliere qualcosa da sola, ma allo stesso tempo non riuscivo a non volermi lanciare in quell’acquisto.

Mia mamma al telefono mi disse: «è inutile che vai a vedere altre case, se ti piace quella, fai la proposta. Io ti conosco, in questo sei come tuo padre, quando ti fissi con una cosa non c’è modo di togliertela dalla testa». Ho sorriso di fronte a quella affermazione così vera. Mi è servita però per prendere coraggio e buttarmi in quella che – ai tempi – mi sembrava un’impresa. Forse le cose migliori si fanno così: rischiando, seguendo le proprie sensazioni, buttandosi di pancia in qualcosa, o meglio nell’incertezza.

Il 30 novembre 2018 ho acquistato la mia prima casa, quel giorno dal notaio ero agitatissima, ma quella compravendita mi ha permesso di conoscere il proprietario Gheri e sua figlia Ginevra, due persone davvero speciali.

Gheri mi ha spiegato tante cose sulla casa, mi ha lasciato gran parte degli arredamenti e quel giorno mi ha presentato Ljubinka, una signora sulla cinquantina, originaria della Serbia che gli dava una mano con le faccende di casa. Con affetto mi ha detto che sarebbe rimasta qualche giorno a darmi una mano con il trasloco e le pulizie. Rimasi interdetta da quel gesto così generoso.

L’ultimo giorno Ljubinka mi chiese se volevo lasciarle un mazzo di chiavi della casa, in modo che se qualche volta avevo bisogno di aiuto, potevo chiamarla. Non mi aspettavo quella proposta, ero anche un po’ scettica all’idea di lasciare le mie chiavi a una perfetta sconosciuta, ma accettai perchè in quel momento mi vergognavo di dirle no e mi sembrava di essere scortese di fronte a tanta disponibilità e gentilezza.

Negli anni, Ljubinka insieme a suo marito Uros c’è sempre stata, sia nelle cose piccole come quando mi è capitato di dimenticare le chiavi in casa e di rimanere fuori la porta, sia quando ho dovuto fare dei lavori come appendere delle mensole, sostituire le plafoniere o ritinteggiare. Negli anni, ho iniziato a prenderle un pensierino per Natale, è sempre stato il mio modo silenzioso per dimostrarle il mio affetto e per ringraziarli per la loro costante disponibilità. Quest’anno insieme a Paolo oltre al panettone e ai dolci abbiamo deciso di prendere una buona bottiglia di grappa, dopo una battuta di Uros, quando all’ennesimo lavoretto in casa ci ha detto che potevamo sdebitarci così.

Nei giorni scorsi, nonostante i vari impegni, finalmente siamo riusciti a trovare un giorno per andarli a trovare e portare il nostro pensierino. Quando siamo arrivati a casa loro, appena varcata la porta, ho notato il tavolo apparecchiato per quattro, non eravamo stati invitati a cena e ho pensato che aspettassero degli ospiti, motivo per cui mi è venuto spontaneo dire subito: «restiamo poco, siamo solo passati per lasciarvi il nostro regalo di Natale».

«Ma cosa restate poco, ho già cucinato, sedetevi e rimanete a cena con noi» mi ha risposto Lujbinka mentre usciva dalla cucina con il grembiule in vita e un sorriso entusiasta.

Ho guardato Paolo per chiedergli con gli occhi cosa fare, «dobbiamo restare, sennò ci rimangono male» mi ha risposto sotto voce. Cosi ci siamo tolti le giacche e ci siamo accomodati a tavola.

Una tavola apparecchiata con una tovaglia rossa, doppi piatti e decorazioni natalizie, era qualche giorno dopo il loro Natale ortodosso. Abbiamo guardato Uros aprire il nostro regalo ed esultare per la grappa, è corso a mostrarla a Lubjnka in cucina e li ho sentiti ridere insieme di cuore.

«Abbiamo mantenuto la promessa, ci hai chiesto una grappa e te l’abbiamo presa» gli ho detto, mentre lui veniva verso di me per abbracciarmi.

«La prossima volta la preferisco bianca» mi ha strizzato l’occhio.

Uros ci ha versato della grappa dentro dei mini bicchieri e abbiamo brindato tutti e quattro, mi ha spiegato che in Serbia si beve prima di iniziare il pasto. Gli ho chiesto la differenza tra il nostro Natale e il loro che è stato il 7 gennaio.

Lubjnka intanto aveva iniziato a portare tutti i loro piatti tipici di Natale o per meglio dire i piatti tipici della Serbia. Per ogni piatto mi ha detto il nome, gli ingredienti e il procedimento per prepararli.

Siamo partiti con il Pihtije: carne di maiale e brodo che diventa gelatina, somiglia molto alla nostra Simmental come consistenza e sapore, mi ha detto di quante ore ci vogliono per la preparazione e di come debba riposare in frigo, abbiamo proseguito con i Knedle za supu: gnocchetti di semolino in brodo, con uova e carne di vitello e poi con i Cevapcici: salsicce di carne mista di manzo e agnello.

A seguire ci ha portato la Sarma: un involtino a base di foglia di verza al cui interno viene messo un ripieno di carne macinata riso ed altre spezie. Uros scherzando ci ha detto di come prima di sposarsi con Ljubinka, le ha chiesto se sapeva cucinare questo piatto, perché è il suo preferito.

Per più di due ore ho dimenticato il telefono e mi sono sentita a casa. Mi sono persa tra i loro racconti: di come nel 1989 si sono trasferiti in Italia, sfiorando di poco la guerra, delle non poche difficoltà che hanno avuto per integrarsi qui e per iniziare a lavorare. Mi hanno raccontato del loro percorso di vita e della storia del loro paese di origine, del regime di Tito – di cui non ero a conoscenza – della divisione della ex Jugoslavia e di come ci siano dietro sempre motivazioni religiose e/o politiche. Mi sono rivista in alcune cose dei loro racconti, soprattutto quando li ho visti amareggiati nell’affermare che le persone dell’Est spesso sono state infangate e hanno raccontato storie non vere sul loro conto. Sono stata felice di sentire una versione diversa, da persone che hanno toccato con mano la verità e mi sono sentita molto vicina al loro vissuto.

Quella sera credevo di fare io un regalo a loro ma in realtà l’hanno fatto loro a me, ancora una volta. Per un’intera serata sono stata a Belgrado, ho camminato per le sue vie, ho respirato i suoi profumi e ho assaporato i suoi piatti. Sono stata nella sala da ballo dove si sono conosciuti Ljubinka e Uros e ho ballato insieme al loro. Ho guardato il loro amore dal lato del mio tavolo, un amore che dura da trent’anni, tra una presa in giro in serbo (che si capiva anche in italiano) e una risata insieme. Un amore che ha sfidato la vita, la guerra e la differenza di due nazioni. Ero in auto con loro, tutte le volte che hanno sbagliato strada, tra le mappe cartacee e la neve dei loro viaggi interminabili per tornare a casa. Ho fatto tutto questo restando seduta su di una sedia a Vicenza.

Quel giorno ho viaggiato con la mente restando ferma. Sono stata in Serbia, tra la sua cultura e le sue tradizioni, restando in Italia. Quella sera mi sono resa conto di come si può viaggiare anche senza muoversi fisicamente. Di come c’è una storia da ascoltare e da fare nostra in ogni angolo. Di come – per anni – ho creduto che il “diverso” facesse paura e bisognava starne lontano ma in realtà è l’errore più grande che fa la nostra generazione. Quello che non conosco ora mi incuriosisce, perché ho capito che mi arricchisce come persona. Ma soprattutto quella sera mi sono resa conto di come – in fondo – non siamo così diversi, che c’è gente onesta in ogni dove, di come nella storia e negli anni c’è sempre stata una guerra – cambia solo la Nazione – e che c’è sempre qualcuno che scappa, qualcuno che accoglie e qualcuno che inevitabilmente viene discriminato. Come mi dice spesso Paolo: «è tutto relativo, in base al punto di vista di come guardi una cosa».

Ho salutato Ljubinka e Uros con un abbraccio, davanti la porta di casa e gli ho detto: «Che serata inaspettata. Non ci siamo fatti nemmeno una foto».

Ljubinka mi ha sorriso come una mamma che sta per darti una lezione di vita importante: «le cose migliori sono così. Possiamo replicare quando volete».

Ho sorriso anche io. Forse è vero le cose migliori sono così, come le consapevolezze che raggiungi: Inaspettate.

A Lujbinka che ha arricchito la mia vita.

Al “diverso” che spesso divide ma che invece dovrebbe unire.

Alle serate inaspettate, che ci cambiano la vita.

Alle nuove consapevolezze.

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