Pensieri ed Emozioni

Resistenza

Mi sono fermata un po’ di più questa volta a pensare cosa scrivere. Mi sono presa un intero mese per metabolizzare, per riflettere e per trovare le parole giuste. Delle parole che potessero contenere tutte le emozioni provate in questi sette anni. Ma alla fine, mi sono resa conto che era impossibile contenere tutto quello che è successo, quello che ho vissuto e quello che i miei colleghi – ognuno in modo diverso – mi hanno regalato. Purtroppo – chi mi conosce lo sa – non ho il dono della sintesi, allora ho provato a renderlo un esercizio di scrittura e mi sono fatta una domanda:

Cosa ha rappresentato per te il Pronto Soccorso?

Di pancia avrei racchiuso tutto in un’unica parola. E più ci pensavo e più non riuscivo a trovare una parola più giusta che lo rappresentasse, o meglio che rappresentasse i miei colleghi e il loro lavoro.

Io non volevo venire in Veneto, mi ci sono ritrovata per un caso fortuito della vita e nel frattempo sono trascorsi sette anni. Per chi viene da fuori come me e lascia la sua casa e la propria città, i colleghi non sono solo dei semplici “colleghi”, sono da subito qualcosa di più: sono degli amici, dei confidenti e con il tempo diventano un po’ la tua famiglia. E come con la famiglia, non sempre scegli i suoi componenti. Infatti sarei falsa se dicessi che sono state tutte rose e fiori, alcune volte non mi sono piaciuti i componenti di questa squadra folkloristica, eppure l’avrei difesa con chiunque, a spada tratta in qualsiasi circostanza perché solo noi sappiamo quello che abbiamo condiviso, la maggior parte delle volte nelle difficoltà.

Cosi ho risposto a quella domanda: il Pronto Soccorso per me è RESISTENZA. 

Perché resiste nonostante la mancanza di personale. Resiste all’assenza di materiale adeguato e resiste alla mole di lavoro smisurata. I miei colleghi resistono ad un’azienda che li tratta come numeri, come fossero l’ultima ruota del carro. Resistono anche ora, di fronte a un sistema sanitario che è in ginocchio e grazie a loro resta ancora in piedi.

Li ho visti resistere di fronte a una pandemia mondiale che ha visto buttare giù i muri dei corridoi dell’ospedale per fare posto, hanno resistito senza riposi, senza ferie e alla paura di dare un semplice bacio ai propri cari. Resistono ancora oggi, tutti i giorni, nonostante le aggressioni e gli insulti della gente. Resistono alla frustrazione e a quel senso di impotenza che spesso li pervade. Resistono al senso di colpa quando vorrebbero fare di più e meglio ma non riescono.

Il Pronto Soccorso – non a caso – è al piano terra, è il primo accesso per ogni persona che ha bisogno, dall’anziano che cerca solo compagnia, dall’uomo senza fissa dimora che ha bisogno di un posto dove dormire, allo psichiatrico che cerca un viso amico. Dall’oncologico che è stufo di vederci, a chi purtroppo trascorre i suoi ultimi attimi lì dentro.

Accoglie ogni tipo di malattia – spesso nascosta – e i miei colleghi sono sempre lì, colonne portanti di un edificio che non riesce a vedere che se loro non ci fossero, non avrebbe modo di esistere.

In Pronto Soccorso non si portano le ciabatte ma le scarpe da ginnastica per camminare veloce, si va perennemente di fretta e la divisa è sempre sporca o in disordine. Per sopravvivere c’è solo la sigaretta e la macchinetta del caffè è un’appendice del nostro corpo. Devi avere tanta memoria e riuscire a fare più cose contemporaneamente.

Il Pronto Soccorso è come la città eterna: non dorme mai. Il sole non sorge e non tramonta, le notti sono interminabili e non c’è mai silenzio. Sei un tutt’uno con il caos, ti scorre dentro come linfa vitale.

Ho sempre detto ai miei colleghi scherzando che per lavorare lì dentro devi essere un po’ fuori di testa, ma forse un fondo di verità c’era. Devi saper convivere con il casino e gli imprevisti e non è una cosa che riuscirebbero a fare tutti.

In tutti questi anni di lavoro ho sempre fatto fatica a raccontare quello che succedeva tra quelle mura alle mie amiche o alla mia famiglia. Perché se non lo vivi in prima persona non puoi capire quel disordinato marchingegno rumoroso e non puoi capire quanta vita passa in quei corridoi e in quelle stanze. Ognuno di loro è stato una spalla con cui condividere le mie frustrazioni, le ingiustizie, il disagio, l’adrenalina e le risate. Tra una battuta per sdrammatizzare la totale disorganizzazione, gli imprevisti e la gioia di un successo o di un semplice traguardo. 

Se chiudo gli occhi riesco a vedere ogni singolo momento di questi sette anni, che per me sono stati folli, complicati ma pieni di vita. 

È stato un onore per me lavorare con ognuno di loro, perché tutti mi hanno dato qualcosa, mi hanno insegnato tanto non solo come infermiera ma soprattutto come persona. Mi hanno insegnato a sopravvivere nelle difficoltà, a saper disinnescare nelle situazioni di tensione, ad arrangiarmi di fronte ad un imprevisto ma soprattutto mi hanno insegnato a RESISTERE.

È stato un privilegio far parte di questa Resistenza.

Quando mi lamentavo del lavoro, Paolo mi diceva sempre: «eppure non c’è un altro reparto dove ti vedrei, che ti rappresenti così bene». Aveva ragione. Ed è per questo forse che non ho mai chiesto il trasferimento, perché quel caos, quella adrenalina e quel disordine facevano parte di me. Ma quella giostra stava iniziando a girare troppo veloce, era diventata ormai “pericolosa”, non riuscivo più a stare al passo e ho scelto di scendere prima che mi facessi male.

Alcune volte mi sono sentita un po’ Schettino che ha abbandonato la nave, ma dentro di me so che non li ho abbandonati e non riuscirò mai a farlo del tutto, perché chiunque ha lavorato in Pronto Soccorso alla fine lascia sempre un pezzo di cuore, lo ricorda con nostalgia e so per certo che sarà cosi anche per me. Il Pronto Soccorso sarà sempre parte di me. I miei sogni però urlavano ormai troppo forte e ho deciso di ascoltarli e darmi una possibilità per inseguirli. Lo dovevo a me stessa.

Se all’inizio trasferirmi a Vicenza mi era sembrata una sciagura, oggi vi dico che invece è stata la cosa migliore che mi potesse capitare perché questo percorso mi ha fatto crescere e mi ha portato fin qui: alla persona che sono oggi.

Quindi vi dedico queste parole per dirvi Grazie e come dice Jovanotti in una sua famosa canzone “perché non ho altro, niente di meglio da offrirvi di tutto quello che ho”. 

Non mi piacciono gli addii, non ho mai detto addio a nessuno e anche questa volta preferisco dire:  Arrivederci.

Vicenza sarà comunque un po’ casa mia. Il Pronto Soccorso sarà sempre casa mia.

Non so ancora dove mi porterà il destino, ma voglio che i mie colleghi sappiano che ovunque andrò ci sarà sempre un posto per loro nella mia vita. 

Mio padre mi diceva che le persone che sanno dire: «Grazie», non saranno mai sole. E ieri, nel vedere quella stanza piena, ho pensato che aveva ragione e ho confermato la mia teoria: “L’amore che dai, Resta.” ma soprattutto, prima o dopo torna.

Quindi semplicemente Grazie per questo indimenticabile viaggio e per questo pezzetto di vita insieme.

Al Pronto Soccorso,

a chi ha scelto di rimanere e ancora resiste,

a chi, come me, ha sentito il bisogno di andare via.

Un commento

  • vincenzo

    Grazie! un “frammento ” di vita ricco di emozioni, in un intreccio di relazioni e di bellezza! si..proprio di bellezza..perché questo è il Pronto Soccorso..una realtà intrisa di fatica e di fascino!!
    un abbraccio a tutti!
    vincenzo, gia’ Primario del Pronto Soccorso

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