La corsa dei sogni

È una mattina di inizio settembre e nel quartiere c’è aria di festa. Per concludere l’estate, prima dell’inizio della scuola, sono stati organizzati dei giochi nel residence dove abito. Ci sono varie competizioni: la corsa 50 metri maschile e femminile, gare di bicicletta e per finire la scalata dell’albero della cuccagna per gli adulti.
Ho deciso di iscrivermi alla corsa dei 50 metri femminile, mi metto in fila e aspetto il mio turno. Quando arrivo al tavolo mi accorgo di superarlo appena con la testa e vedo Antonello – il fratello maggiore della mia amica Grazia – sporgersi dalla sedia e sistemarsi gli occhiali rettangolari sulla punta del naso, come se dovesse valutare ogni parola che esce dalla mia bocca.
«Quanti anni hai?» mi chiede divertito.
«Quasi otto» gli rispondo decisa.
«E sentiamo, a cosa vorresti iscriverti?» continua con il suo sorriso strafottente,
«Alla corsa dei 50 metri»
«Saresti la più piccola lo sai? È suddiviso per età certo, ma per adesso sono iscritte solo bambine più grandi di te. Ci vuoi provare?»
«Sì. Voglio iscrivermi lo stesso» gli rispondo stringendo i pugni.
«Va bene Fedora, ti iscrivo. Ci vediamo oggi pomeriggio alle 16,00» mi dice serio e mi consegna il foglio dell’iscrizione.
È quasi ora di pranzo e mi avvio saltellando verso casa, euforica e sicura di vincere ma soprattutto impaziente di raccontarlo ai miei genitori.
Appena apro la porta di casa, corro in cucina urlando: «mamma mi sono iscritta alla corsa dei 50 metri» Inizia a ridere. Non è una risata di gioia ma una smorfia di chi ti prende in giro. Ad un tratto, si volta verso di me e con freddezza mi dice: «ma cosa pensi di fare? Tu? Non ce la farai mai». In un attimo la mia euforia si è sgretolata in mille pezzi ma non la mia determinazione, così appena rientra mio padre da lavoro, ci riprovo e dico: «papà mi sono iscritta alla corsa dei 50 metri».
«Non sei piccola per la corsa? Puoi partecipare?» mi risponde in modo distratto mentre poggia la borsa medica e la giacca sul divano.
Sento il viso caldo e rosso, mentre osservo mio padre sedersi a tavola e mia mamma di spalle che con il mestolo gira il sugo. Mi ignorano e parlano tra loro, di come è andato il lavoro e la giornata in generale. Mi siedo a tavola e mangio la mia pasta al pomodoro in silenzio, pensando alla corsa. A come avrei dovuto correre per potercela fare, che scarpe mettere e che pantaloncino comodo indossare.
Alle 15,30 guardo i miei genitori e gli dico: «quella coppa sarà mia».
Incrocio per qualche secondo lo sguardo di mio padre: è con la bocca aperta, appoggiato con i gomiti sulla sedia mentre con il telecomando in mano legge le notizie sul televideo. Sbatto la porta alle mie spalle e scendo giù nel cortile del residence. Sono in anticipo, così vago tra i quattro palazzi arancioni e vedo dove si terrà la corsa. Le altre concorrenti sono già lì, alcune le conosco, sono tutte più alte e più grandi di me. “Forse hanno ragione, non ce la farò mai” penso.
Sono ormai quasi le 16,00. Ci mettiamo tutte in riga, inizio a muovere i piedi sul posto, in alternanza, mentre abbasso la testa e guardo il mio pantaloncino rosso e la maglietta nera. Ho legato i capelli e messo i polsini di spugna, apro e chiudo le mani continuando a saltellare sul posto.
«Allora ragazze mettetevi in posizione. Al fischio partite»: dice Antonello con il fischietto al collo e il cappello in testa. Mi guardo intorno, nessuno è venuto a vedermi o a fare il tifo per me, ma non importa.
Secondi che sembrano eterni e all’improvviso il fischio di Antonello squarcia l’aria e il mondo intorno a me si fa più distante. Il mio corpo si muove all’unisono con il battito del cuore che accelera e le gambe si muovono veloci. Ogni passo sembra pesante eppure leggero allo stesso tempo, come se l’adrenalina mi sollevasse. Il respiro si fa più affannoso ma non mi fermo, non posso. Sento l’aria che sferza il mio viso, fredda e pungente, mentre la pelle delle gambe è calda e tesa sotto lo sforzo. Ogni muscolo sembra urlare ma la testa è concentrata: il traguardo è lì, davanti a me, sempre più vicino.
I piedi sfiorano l’asfalto ma non riesco a fermarmi. Non voglio sapere dove sono, non voglio distrarmi a guardare le altre che corrono accanto a me, io continuo sentendo il respiro che si fa sempre più corto. A un certo punto, sento solo il peso del mio corpo che spinge in avanti, le braccia che oscillano come leve perfette, i polsini di spugna che assorbono il sudore e la maglietta che si incolla alla pelle. Non vedo più niente, solo il traguardo che si avvicina e allora chiudo gli occhi per un secondo.
Quando li riapro l’espressione di Antonello è cambiata. Non c’è più il sorriso compiaciuto, ma vedo un piccolo accenno di rispetto nei suoi occhi mentre mi viene incontro con la coppa ed esclama: «ha vinto Fedora».
Sento un applauso fragoroso mentre guardo attorno a me tutti i vicini di casa battere le mani.
«Ce l’ho fatta. Ho vinto». Inizio a saltare e ridere forte, corro di nuovo verso casa.
Urlo ancora durante il tragitto: «ho vinto», salgo le scale due scalini alla volta fino al quarto piano, citofono insistentemente al campanello. Apre la porta mia madre, entro in casa sventolando la mia coppa e continuo a ripetere: «ho vinto».
«Non ci credo, l’hai detto e l’hai fatto» mi risponde mia mamma incredula.
Papà esce dalla cucina e sorride con un’espressione di orgoglio quando mi vede saltare con la coppa, gli vado incontro, mi prende in braccio e mi solleva come una vera vincitrice.
«Non hai bisogno del mio sostegno per fare le cose. Corri sempre per raggiungere i tuoi traguardi con la stessa determinazione con cui hai corso oggi» mi dice mentre vedo i suoi occhi inondarsi di lacrime che trattiene e ci abbracciamo.

La mia coppetta è ancora lì, sulla mensola della mia camera a San Severo e nonostante i traslochi l’ho sempre custodita con cura. E’ una banale coppetta di una semplice gara in un residence di periferia, è incollata anche male eppure per me vale più di qualsiasi altro trofeo o medaglia. Avevo solo otto anni ed è stata la mia prima vittoria. La prima vittoria con me stessa.
La tengo volutamente in vista come promemoria di vita, per ricordarmi di correre sempre. La conservo per tutte le volte che la vita mi fa lo sgambetto e perdo quella determinazione e quella smisurata voglia di farcela.
Mia mamma ha continuato ad essere severa per motivarmi e mio padre ha continuato a ridere di cuore per ogni successo che ho raggiunto nella vita. Sono sicura che sta sorridendo anche ora con questa storia, perché quel giorno mi ha insegnato a non arrendermi e ad impegnarmi tanto quando voglio raggiungere qualcosa.
3 commenti
Massimo Nichele
Bellissima storia!!!!
Complimenti !!!
Grazia
Quelle feste, quel residence, quegli anni… 🥹❤️
Antonello
All’Hoffmann eravamo tutti una grande famiglia.
Sono felice di aver rivissuto ora, grazie alla tua storia, un bell’istante della tua infanzia e della mia adolescenza.
Se potessi tornare a premiare qualcuno oggi, consegnerei una coppa a tutta la tua bella famiglia, compreso chi non c’è più e ha lasciato un bellissimo ricordo nella mia vita.