Pensieri ed Emozioni

Ritrovare la strada

Essere infermiere non è semplice. Farlo in un Paese come l’Italia lo è ancora meno. Mi sono laureata ormai 11 anni fa e nel corso degli anni, lentamente ho perso la mia passione. Mi sono vergognata spesso di questa cosa. La verità è che ho perso interesse, e mi sono trasformata in un robot che ciclicamente fa le stesse cose: mi alzo al mattino, vado al lavoro, sento il “bip” del cartellino al timbratore, che è ormai quasi fastidioso, e mi dirigo verso il mio reparto come se andassi al patibolo. Ogni giorno quel magone e quella angoscia si fanno sempre più grandi dentro di me.

Non sono sempre stata cosi. Amavo il mio lavoro. Ho sempre amato l’area critica e ho scelto di lavorare in pronto soccorso e in terapia intensiva, perché l’urgenza mi faceva sentire viva, ma soprattutto utile per le persone. Ero fiera di essere infermiera, entusiasta del mio operato, curiosa ad ogni caso clinico, volenterosa a lavoro, pronta a dare una mano ai miei colleghi. Non importavano i turni massacranti, la stanchezza e i pochi riposi, se questo significava poter aiutare qualcuno. Tornare a casa stremata, ma andare a letto sapendo di aver fatto qualcosa di buono nella mia giornata, mi ha sempre fatto sentire una brava persona.

Nel tempo però qualcosa dentro di me si è rotto. Le motivazioni che potrei elencare sono tantissime: i carichi di lavoro sproporzionati, il poco personale, gli insulti che prendo ogni giorno e le aggressioni fisiche ingiustificate. Il semplice interagire con gente perennemente arrabbiata che ti guarda con occhi pieni di odio, che è sempre di fretta e non ha più pazienza, il dover parlare con persone che ti augurano il male. Tutto questo mi hanno fatto perdere fiducia. Lavorare ogni giorno per gente ipocondriaca o per familiari che vogliono solo fare accanimento terapeutico, mi ha fatto perdere il mio credo. Come un credente che perde la sua fede e il suo Dio. E’ successo lentamente e senza che me ne accorgessi mi sono ritrovata a dire, ogni giorno: «Oggi non voglio andare a lavoro». Così la voglia di aiutare ed essere utile per il prossimo, ha lasciato posto alla paura e all’angoscia di essere aggrediti e alla frustrazione di fare un lavoro in cui non credi più.

Poi è successo qualcosa.

Un giorno, la mia coordinatrice mi ha detto che dovevo seguire gli studenti di infermieristica, perché sono brava. Forse l’ha fatto per me, per gratificarmi, ma ancora non potevo saperlo. Mi sono sempre rifiutata in questi anni di seguire gli studenti, perché li ho sempre visti un impegno. Un impegno che non volevo prendere. In realtà non volevo seguirli, perché avevo paura di trasmettere questa mia sfiducia verso il sistema e verso le persone. Come una malattia contagiosa, non volevo trasferirla anche a loro.

Quando sono arrivati, inizialmente sono stata arrabbiata e nervosa, perché questa incombenza non la volevo e mi era stata imposta. Ma nell’ultimo anno, ogni giorno, mi sono fermata ad osservare questi ragazzi di 22 anni, pieni di energia e di buoni propositi. Mi è piaciuto vedere il loro sorriso, la gentilezza che avevano nei confronti dei pazienti e quella curiosità negli occhi, così forte da illuminarli. La voglia di imparare, di rubare il lavoro, ma anche la paura di sbagliare. Senza volerlo, mi hanno portata indietro nel tempo, a quando ero anche io così.

Come ho fatto a dimenticarlo?

Cosi ho realizzato che avevo bisogno più io di loro, che loro di me. Avevo forse poco da insegnare, ma molto più da imparare. L’ho realizzato, soprattutto in questo ultimo tirocinio, quando si è presentato Salvatore: un ragazzo siciliano, dal sorriso caldo e pieno di affetto. Appena mi ha stretto la mano, ho pensato che non poteva essere solo un caso, che si chiamasse proprio così. In tutti questi anni, non ho mai conosciuto direttamente qualcuno che si chiamasse come mio padre.

Negli ultimi due mesi, il suo sorriso e il suo buon’umore hanno illuminato le mie giornate, il suo lavorare incessantemente senza lamentarsi mai, ma soprattutto il suo non arrendersi di fronte alle difficoltà del percorso di studi universitario, mi ha fatto venir voglia di andare a lavoro. Anche se non gliel’ho detto, mi sono sentita tante volte nella mia vita come lui: “ultima”. Mi piacciono gli ultimi, perché si impegnano più degli altri, profumano di sfida e di dignità. E perché credo fermamente che gli ultimi saranno i primi.

Ad un tratto, mi sono resa conto che avevo smesso di dire: «oggi non voglio andare a lavoro». Perché forse è vero, come dice il proverbio: “Aver compagn al duol, scema la pena”. Di sicuro, per me è stato molto più di un semplice studente. E credo che non sia una coincidenza che i nostri cammini si siano incrociati.

Non so se ritroverò mai la mia fede. Ma Grazie ad Alessia, Lorenzo, Katia e Salvatore, perché questi ultimi anni insieme a loro, mi hanno fatto credere che ne vale ancora la pena e mi hanno dato un motivo per non mollare. Con la speranza che siano degli infermieri migliori di me e che non perdano mai la passione per il lavoro e la loro strada in questo fantastico viaggio.

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