C’è chi dice No.
Vi siete mai sentiti delusi o traditi da un’aspettativa che vi eravate fatti? Da una persona per cui vi siete impegnati tanto? Da un lavoro in cui avete investito tutto quello che avevate? Da un’amicizia in cui credevate o da un sogno che avete sperato si avverasse, per anni?
Che cosa si fa quando quando queste aspettative vengono disattese? Come si supera la frustrazione e la rabbia per l’investimento sbagliato?
Ci insegnano ad impegnarci e a dare senza aspettarci nulla in cambio. Ma riusciamo davvero a farlo? Umanamente ci aspettiamo sempre qualcosa in cambio, anche un piccolo ritorno.
Sono cresciuta in una società che mi diceva che fare la “gavetta”, prima di lavorare dignitosamente, era normale. Ed io ci ho creduto, cosi ho trovato normale non avere un lavoro subito dopo la laurea e restare disoccupata per più di un anno. Ho trovato normale sbattermi a 23 anni per tutta l’Italia per consegnare il mio curriculum a tutte le cliniche private che ho trovato su internet, senza essere mai richiamata. Trovavo normale affannarmi solo per fare un concorso, in viaggio con un pullman notturno per mettere delle crocette – la mattina – su un foglio con domande impossibili e ripartire subito dopo. Ho trovato normale fare 20 concorsi in giro per svariate città del nord Italia, spendere soldi e poi sentirmi in colpa di averli chiesti a mia mamma, per passarne alla fine solo uno o due. Ovviamente non ho mai pensato che il sistema fosse sbagliato, ma ho creduto di essere io l’incapace. Questo mi ha spinto ad impegnarmi e sacrificarmi ancora di più, così ho iniziato a lavorare facendomi sottopagare, con la partita iva per 9 euro lordi l’ora, perché non c’era lavoro e dovevo accontentarmi. E allora io mi sono accontentata e ho fatto anche 60 km al giorno per quei pochi euro. Poi ho preso una nave GNV da Napoli e mi sono imbarcata per Palermo con solo una valigia grande, per poter guadagnare 20 euro lorde l’ora, avevo 25 anni e mille sogni. Ho dormito su un letto scomodo che mi ha spezzato la schiena in un’affitta camere, senza cucina e senza riscaldamento, ma l’ho trovato giusto perché dovevo crescere, dovevo imparare, perché ero ancora giovane. Perché lo fanno tutti.
Dopo un po’ ho deciso di chiudere la partita iva e ho vinto il mio primo avviso pubblico. Così ho rifatto le valigie e mi sono trasferita a Roma, ho vissuto più di due anni in una mansarda di nemmeno 30 metri quadri, dove per dormire dovevo abbassarmi per non sbattere la testa, avevo due piastre come cucina e non avevo il bidè nel bagno, ma ero tutto quello che potevo permettermi e mi sono adattata, senza lamentarmi. Ho sperimentato sulla mia pelle cosa significhi essere solo un numero, per l’azienda.
L’ AZIENDALIZZAZIONE. Siamo tutti uguali per l’azienda. Ma è davvero così? Siamo tutti uguali? Non abbiamo sentimenti ed emozioni per l’azienda. Siamo tutti sostituibili, rimpiazzabili. In tutti questi anni, avrei voluto urlare come questo “numero” ha represso i suoi sentimenti ed era pieno di sogni che sono stati calpestati, senza pietà.
Ho scoperto cosa significa essere l’ultimo arrivato a lavoro. Cosa significa avere un contratto di serie B e non avere un “indeterminato”, ho fatto doppie e triple notti, ho coperto mille malattie e turni e mi sono ritrovata per cinque anni di fila a lavorare la notte di capodanno. Perché era giusto cosi.
Ed ancora una volta ho davvero creduto che fosse giusto, che prima o poi sarebbe arrivato il mio momento, che non sarei stata più l’ultima arrivata e anche io avrei avuto un contratto a tempo indeterminato e sarei contata qualcosa come professionista. Nonostante gli spostamenti però, non ho smesso di studiare, ho conseguito due master: il primo a L’Aquila e viaggiavo tutti i weekend dalla Puglia e successivamente dalla Sicilia, e il secondo a Vicenza durante l’intera pandemia. Nonostante la stanchezza e le difficoltà, l’ho fatto perché mi sembrava giusto investire nella mia formazione e continuare a migliorare.
A 28 anni mi sono trasferita a Vicenza ed ho avuto il mio agognato tempo indeterminato.
IL POSTO FISSO. Finalmente tutti i miei sacrifici erano stati ripagati e credevo di essere felice, di aver raggiunto quello che ho rincorso per anni: una stabilità economica, un contratto decente ma soprattutto non sarei stata più l’ultima arrivata. Era finalmente arrivato “il mio turno”.
La verità è che negli ultimi 10 anni, una vocina si è fatta strada dentro di me, come un eco da lontano, più mi allontanavo e più la sentivo sempre più forte.
“E’ davvero giusto adattarsi a tutto questo?”
“E’ davvero giusto sacrificarsi così tanto?”
Non avevo risposta a queste domande o meglio, ho preferito assecondarle e non rispondere.
Perché tutti si sacrificano, chi sono io per lamentami?
Ho ignorato questa vocina con tutte le mie forze e se dopo 10 anni di servizio prendo lo stesso stipendio di quando ho iniziato, non mi sono lamentata perché c’è chi non ha un lavoro e chi non arriva a fine mese con quel poco che prende. Anche se ho conseguito tantissimi titoli ma non ho ricevuto nessun riconoscimento, me lo sono fatta andare bene perché in Italia “funziona così”.
Ma negli ultimi mesi è successo qualcosa che mi ha portato a pormi altre domande. I miei colleghi più giovani, hanno continuato a licenziarsi, a non sottostare a ritmi di lavoro insostenibili, non sono scesi a compromessi. Non si sono accontentati.
Un giorno un collega – dopo essersi licenziato – mi ha detto: «Voi siete matti ad accettare di lavorare in queste condizioni». Sono rimasta in silenzio, perché le uniche parole che mi sarebbero venute da dire erano: «Hai ragione». Ma significava tradire i miei 10 anni trascorsi, i miei sacrifici e il mio tempo. Quell’affermazione è stata un pugno nello stomaco, di quelli che ti tolgono il fiato, che fanno così male che non puoi non pensarci.
La vocina interiore ha continuato a crescere, alimentata dai miei dubbi, dal mio continuo rimuginare su un sistema sbagliato, è cresciuta come una piantina che nasce tra l’asfalto, anche senza acqua resiste e nel tempo è diventata un arbusto grande e forte.
Cosi mi sono chiesta: “Perché non ho avuto quel coraggio? Perché ho barattato la mia felicità e miei ideali per un lavoro che in cambio non mi ha dato nulla ma mi ha tolto tanto? Perché mi sono adattata ad un sistema sbagliato?
Forse non è giusto fare la gavetta. Forse non è giusto doversi adattare per forza a un sistema sbagliato. Forse ad un certo punto la tua salute deve essere più importante. Forse i miei ideali andavano urlati a gran voce, e invece ho abbassato la testa e sono stata zitta insieme a tutti gli altri, per paura. Paura di perdere quel posto di lavoro tanto ricercato, paura di renderlo ancora più invivibile.
Lavoriamo per un sistema e una società che riduce sempre di più il personale sanitario, che chiede agli operatori sanitari sempre di più, spremendoli come un limone. Cosi ad un tratto vai a lavorare pensando che se ti insultano tutto il giorno è normale, se tentano di strangolarti non interessa a nessuno, se ti spaccano il naso può succedere, e se ti lanciano un estintore è ordinaria amministrazione. E vogliamo normalizzare tutto questo, perché tanto dopo un po’ “ti abitui”. Cosa importa se vai a lavoro con l’ansia e la paura di essere aggredito o insultato. Puoi fare un corso di autodifesa cosi stai più tranquillo, oppure un corso di Tai Chi così ti rilassi.
Allora mi chiedo: l’idraulico, il meccanico, il falegname o l’avvocato (e così via) la mattina vanno a lavoro pensando che possono essere aggrediti o picchiati? Hanno paura di essere insultati? Credo proprio di No. Allora perché vogliamo normalizzare qualcosa che di normale non ha proprio niente? Perché sminuiamo episodi di violenza che invece sono gravi?
La società in cui viviamo ti inculca che non devi lamentarti, non devi fare polemica, devi lavorare sodo perché il mutuo a fine mese non si paga da solo e non devi dire la verità perché sennò ti si può ritorcere contro, allora meglio stare zitti e tirare avanti. Ma sono un po’ stanca di stare zitta, perché a 34 anni ho cambiato le priorità della mia vita, e ora non sono più il lavoro e i soldi che contano ma il mio tempo e la mia salute. E sono anche stanca di sentirmi dire che non sono abbastanza diplomatica. Perché come sempre, tra essere diplomatici e finire sottomessi a un sistema sbagliato per paura, la linea è sottile. Oltrepassarla è un attimo.
Diplomazia: “tatto, finezza, abilità nel trattare questioni delicate o nel mantenere rapporti con persone suscettibili.”
Forse è vero, non sono una persona diplomatica però sono pronta a prendermi le mie responsabilità. Per anni ho indossato scarpe che non erano della mia misura e me le sono fatte andare bene, anche se mi facevano male, anche se non mi piacevano, perché lo facevano tutti e volevo uniformarmi per non risultare “diversa”. Ma io sono un lupo che si fa fatica ad addomesticare e non posso rinunciare più a questa parte di me, per paura delle conseguenze o di perdere qualcosa. Oggi non rinuncio più ai miei ideali e ai miei valori, per adattarmi a un sistema sbagliato e corrotto, perché so quanto valgo.
Ai giovani di oggi voglio dire quello che avrei voluto sentirmi dire io a 23 anni: Non accontentatevi. Mai. Credete nel vostro potenziale, nelle vostre capacità, nei vostri sogni e nei vostri ideali ma soprattutto non barattateli mai, nemmeno per un lavoro. Pretendete sempre di più per voi stessi. Non accettate stage da 500 euro come rimborso spese, o “tirocini formativi” gratis perché dovete imparare. Non accettate di lavorare in condizioni che non sono dignitose, perché non è giusto. Disobbedite.
Un giorno, da adolescente, ero tornata da scuola arrabbiata per l’ennesima ingiustizia subita e ricordo che mio padre mi disse: “Tu fai parte di questo sistema. Se il sistema non ti piace, allora sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
In questi giorni le sue parole mi rimbombano dentro come un tamburo, oggi avrei voluto avere la possibilità di chiamarlo per dirgli: «E’ questo il mio piccolo cambiamento, la mia rivoluzione.» e ho voglia di urlarla a gran voce. Oggi alzo la testa e respiro a pieni polmoni e lo devo a me stessa, ai miei sacrifici e al mio tempo. Perché come in una relazione tossica, quando inizi ad accettare tutto quello che non va bene, alla fine inizi a credere che sia la normalità. Ma quando realizzi che non è normale e che stai male allora è il momento di tagliare, di lasciare andare. E’ ora di cambiare.
E’ ora di dire No.
Una mia amica un giorno mi ha detto: “Stai attenta ai consensi impliciti che dai, stai insegnando agli altri come trattarti”.
Ai colleghi dei vari Pronto Soccorso d’Italia, perché sono degli eroi.
Alla gente onesta che lavora ogni giorno, ma non può parlare perché ha una famiglia e un mutuo da pagare.
A chi non ha il coraggio di cambiare, ma ha il coraggio di restare.
Ad ogni Infermiere, Medico ed Oss che ho incontrato in questi 10 anni,
Grazie.
Un commento
Nicoló
Concordo pienamente con te, sei una persona speciale.