Il cero del 5

5 febbraio 2024
«Bianca entriamo un attimo in chiesa? Devo fare una cosa» ha esordito all’improvviso Vittoria.
L’ho guardata perplessa, perché non riuscivo a capire quella richiesta così inaspettata.
«Certo, nessun problema» le ho risposto per gentilezza.
Stavamo passeggiando per le strade di un paesino di cui non sapevo neanche il nome e nemmeno mi interessava perché – in fondo – qualche volta è bello perdersi e dimenticarsi per un po’ dove ti trovi.
Era un pomeriggio uggioso ma stranamente quel grigio non mi disturbava anzi, era piacevole il silenzio che ci accompagnava mentre camminavamo lentamente sotto braccio. Avevamo da poco condiviso un pranzo insieme tra chiacchiere spensierate e dolci confidenze. Uscite dal ristorante ad un tratto, accanto a noi, questa chiesa maestosa e la richiesta di Vittoria.
L’ho guardata salire le scale, mentre oscillava nel suo cappotto beige, così dopo un po’ l’ho seguita. Mi ero seduta all’ultimo banco della chiesa che, per fortuna, era completamente vuota. Le pareti erano bianche e sul soffitto c’era un enorme affresco. Mi viene sempre naturale alzare lo sguardo al cielo quando entro in chiesa, mi sono chiesta spesso il perché. Ho osservato Vittoria accendere un cerino, farsi il segno della croce e dire una preghiera in silenzio. D’istinto ho fatto lo stesso: ho pregato. Non sapevo di preciso per cosa o per chi stessi pregando ma percepivo il suo dolore e volevo in qualche modo esserle vicino.
Io e Dio non abbiamo avuto sempre un bel rapporto, in alcuni momenti della mia vita sono stata arrabbiata con lui, per tutto quello che mi ha tolto e per ogni volta che l’ho avvertito come “ingiusto”. Questo mi ha portato a maledirlo e ad allontanarmi da lui. Ci sono state però anche situazioni dove il dolore mi stava schiacciando, non riuscivo a trovare rassegnazione e pregare mi ha dato conforto, mi ha aiutata a trovare pace, a lasciare andare quella rabbia che mi corrodeva dentro.
«Possiamo andare. Grazie» mi ha detto con voce rotta, gli occhi lucidi e le mani strette in tasca.
Ci siamo incamminate verso l’auto restando in silenzio.
Salite in auto, mi ha chiesto: «ti dispiace se fumo una sigaretta?»
«Certo che no, è la tua macchina»
«Grazie per avermi accompagnata. Oggi è 5» mentre tirava una boccata dalla sua sigaretta, come per liberarsi da quel peso che si portava dentro da troppo tempo. Il finestrino aperto faceva entrare un po’ di vento che le scombina i capelli scuri.
«E di che. Ne ho approfittato anche io per fare una preghiera» le ho risposto con le mani giunte tra le gambe come per pregare ancora. Non volevo chiederle nulla. Non volevo forzarla a dirmi nulla. Potevamo rimanere in silenzio per il resto del viaggio.
«Ho avuto un aborto» mi ha detto senza giri di parole, colpendomi come un proiettile in piena faccia.
Non ero pronta a quella informazione, così veloce da non riuscire ad essere metabolizzata in poco tempo, «mi dispiace» le ho risposto a bassa voce. In quel momento non sapevo cos’altro dire.
«E’ successo il 5 dicembre di qualche anno fa. Da allora accendo un cero ogni 5 del mese e faccio una preghiera» ha continuato mentre si accendeva un’altra sigaretta.
I nostri sguardi si erano incrociati per qualche secondo e nei sui occhi ho letto quel dolore che la consumava da dentro. Un macigno che non avevo idea esistesse fino a quell’istante. Ai miei occhi è sempre sembrata una ragazza piena di vita, solare e spensierata. Forse era arrivato il momento per lei di lasciare andare. Di tirare fuori quel mostro gigante che ha soffocato per troppo tempo.
Avrei voluto abbracciarla ma stava guidando, così sono rimasta immobile e in silenzio.
«Ero incinta di qualche settimana, ma quel giorno ho deciso di interrompere la gravidanza» aveva gli occhi lucidi e continuava a fumare la sua sigaretta, «non mi giudicare male, ti prego» mi ha implorato.
«Non lo farei mai» le ho risposto subito.
«Mi sono innamorata dell’uomo sbagliato, purtroppo me ne sono accorta troppo tardi. Ero già incinta quando mi ha picchiata e ho scoperto che si drogava» una lacrima le rigava il viso, ma continuava a tenere lo sguardo fisso sulla strada. Nei suoi occhi il riflesso delle luci delle auto.
Quell’affermazione mi aveva sconvolto, il cuore aveva iniziato a battere più forte e mi sudavano le mani, avrei voluto dirle qualsiasi cosa per farla sentire solo un po’ meglio, ma dalla mia bocca non uscì ancora una volta nessun suono.
«E’ stata la decisione più difficile della mia vita. Non ho dormito per giorni, ma il 5 dicembre ho preso appuntamento per l’interruzione di gravidanza. Non potevo avere un figlio insieme ad un uomo così. Dopo quel giorno volevo solo morire. Non so cosa mi ha spinto ad andare avanti» le tremava la voce, e aveva bisogno di fare delle pause per poter pronunciare quelle parole.
Mentre continuava a raccontarmi la sua storia, non riuscivo più a trattenere le lacrime, così abbiamo pianto insieme. Ognuna nel proprio posto, un pianto silenzioso, composto, quasi liberatorio.
Osservavo di nascosto – dal mio posto passeggero – il profilo di una donna minuta ma che in quel momento per il suo coraggio mi sembrava un gigante.

«Non sono mamma e quindi non posso capire cosa significa, ma anche io ho perso una persona importante. Vorrei dirti che prima o poi non ci penserai più ma sarebbe una bugia. Però andrai avanti, sono sicura che ce la farai. Mio padre mi diceva sempre: “Dio manda le croci a chi ha la forza di sopportarle”» le ho detto mentre istintivamente le prendevo la mano.
Ci siamo strette la mano come due fidanzati ai primi appuntamenti, mentre la strada ci scorreva accanto, ormai nel buio della sera. Mi sentivo cosi piccola accanto a lei, anche un po’ stupida pensando a quante volte i miei problemi mi sembravano così grandi e invece non lo erano affatto, a come le mie scelte di vita fossero state difficili e in realtà a confronto erano state semplici. Mi sono chiesta se avrei avuto lo stesso coraggio e la stessa forza. Respiravo accanto a quella donna più piccola di me che profumava di dignità e quel giorno mi stava dando una lezione di vita importante.
Pensavo a come è vero che il dolore è una cosa che abbiamo tutti in comune, ma che può avere una faccia diversa per ognuno di noi. Mi sono resa conto di come ogni persona che incontriamo sta combattendo una battaglia silenziosa di cui non possiamo immaginare nulla. Le vite degli altri, dall’esterno, possono sembrare semplici o migliori e invece ognuno di noi ha un mostro interiore da combattere e una storia difficile che in qualche modo l’ha segnato.
Vittoria mi stava regalando la sua storia, come atto di pura fede. Non ci conoscevamo da tanto tempo eppure si è fidata di me e mi ha raccontato il suo dolore, sigillando quel pomeriggio un’atto di amicizia sincera.
«Si sarebbe chiamata Ludovica» mi ha detto guardandomi negli occhi.
Sotto casa mia ci siamo abbandonate ad un lungo abbraccio.

A Ludovica e a tutti i bambini mai nati,
A Vittoria e alle donne coraggiose come lei,
Alle scelte difficili che ci cambiano la vita.